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di Elisa Mulone*

L’articolo apparso sul numero 139 della rivista Mente e cervello uscito in edicola nel mese di Luglio 2016 affronta un tema esistente con una modalità che rischia di distorcere i dati di alcune delle ricerche citate, di diffondere informazioni non corrette e di creare diffidenza nei confronti di uno strumento di cura che si è dimostrato scientificamente valido nella terapia del disagio psichico e nel miglioramento della qualità della vita. La psicoterapia si guadagna una prima pagina senza precedenti.

cervelloIl dott. Giovanni Sabato, di professione biologo, su una condivisibile affermazione del Prof. Semerari ha costruito un articolo che merita degli approfondimenti.

Semerari afferma che “tutte le terapie che funzionano hanno un rischio iatrogeno, dai farmaci alla chirurgia, e non c’è motivo per cui le psicoterapie dovrebbero fare eccezione. Se una cosa non fa potenzialmente male, vuol dire che non fa nulla”.

Non trovo sconvolgente l’affermazione di Semerari sulla quale è stato costruito un articolo che contiene degli errori scientificamente rilevanti, bensì trovo aggressivo e fuorviante il titolone in prima pagina che grida “al lupo al lupo”.

La iatrogenia esiste, in psicoterapia come in tutti gli interventi di cura che si rispettino. Errare è umano e gli psicoterapeuti, aimè o per fortuna, umani lo devono essere intrinsecamente, dato che sulla relazione si fonda l’intervento terapeutico. Dalla relazione si sviluppa la vita, fisica e mentale. Tutti gli attuali studi sull’Infant Research e neuroscientifici lo affermano con forza e lo dimostrano empiricamente.

Come cita la presentazione del volume Ammalarsi di psicoterapia “curato da Marco Bianciardi e Umberta Telfener “Il concetto di danno che si genera nella cura (iatrogenia) dovrebbe entrare a far parte del bagaglio teorico di ogni psicoterapeuta, perché solo questa consapevolezza e questa distanza critica e autocritica possono aiutare a non insistere in una ipotesi clinica, in una linea di intervento se questa risulta più fedele al proprio credo teorico che all’andamento della cura. Errare in psicoterapia è inevitabile e anche utile, perseverare può risultare distruttivo!”.

L’articolo si pone come se gli psicoterapeuti nell’esercizio della professione non fossero in grado in
primis di fare diagnosi e di “lavorare” tenendo conto della specificità del paziente che hanno di fronte. Che ci siano colleghi che non lavorano in maniera deontologicamente orientata o che, umanamente commettiamo degli errori, non lo si può escludere, in psicoterapia come in ogni altra professione, ma che gli psicoterapeuti in generale, dopo poco più di 12 anni di formazione siano degli incompetenti sprovveduti, questo mi sembra un quadro molto inverosimile. “Standardizzare” il percorso di terapia, inoltre, può riferirsi ad alcuni modelli di terapia, non certo a tutti, e non può voler dire spersonalizzare la terapia. Se il paziente a sei mesi di terapia si sente confuso è importante che il terapeuta si ponga delle domande sul perché “quel” paziente in “quel” momento si sente confuso ma ciò non può voler significare a priori che qualcosa non funziona: dipende dalla modalità di funzionamento della persona e dal contesto in cui si inserisce. Una modalità relazionale borderline (utilizzando un linguaggio gestaltico) a sei mesi di terapia sarà più che confuso, perché, se la terapia è sana, starà sperimentando una relazione nuova e funzionale in cui piano piano inizierà a sentirsi compreso, non interpretato, ma “visto” nella sua individualità. Un paziente psicotico, se resiste sei mesi in terapia, sarà all’inizio del suo percorso di ricostruzione del ground che gli è mancato ed essere confuso potrebbe già essere l’inizio del suo “sentirsi vivo”. Se la relazione è disfunzionale allora fa male, ma questo presuppone che il terapeuta sia incompetente, in caso contrario, è stato provato, dalle recenti ricerche basate sulle neuroscienze, che è la relazione tra terapeuta e paziente che cura e che modifica le connessioni neuronali.

L’abbandono della terapia fa parte del naturale processo terapeutico poiché il paziente che dopo una cervello2prima consulenza o una serie di sedute non si sente pronto di affrontare un percorso più lungo perché troppo impegnativo per lui in quel momento o non si è trovato in sintonia con quel terapeuta è libero di non proseguire, pur significando la non risoluzione della problematica che lo ha condotto da quel professionista in particolare. Del resto, lo sappiamo bene, che non sempre affidarsi è così scontato. A volte, alcuni pazienti, iniziano un percorso di terapia itinerante proprio per la paura di affidarsi a qualcuno. Nel frattempo, in questo entrare e uscire dalla relazione, il paziente può migliorare alcuni aspetti della sua vita e peggiorarne altri, ma fa parte di un copione che la persona conosce già e che nessun professionista può magicamente cambiare o peggio imporre con una qualche tecnica. La persona si affiderà quando sarà pronta a farlo e quando troverà l’accoglienza che sente giusta per lui. Se pensiamo ad una persona con modalità relazionale narcisistica potrebbe essere difficile trovare il terapeuta giusto, difficilmente qualcuno potrà essere all’altezza degli standard di perfezione che si è costruito.

Uno degli studi citati nell’articolo mette in evidenza un 5% di effetti nocivi, (tra l’altro sarebbe interessante capire in termini qualitativi che significa). E allora perchè mettere così tanta enfasi sui danni? Senza volerli negare, i numerosi studi sull’efficacia delle Psicoterapie e gli attuali studi di autorevoli neuroscienziati rilevano come la psicoterapia agisce sul cervello e produce al suo interno modificazioni simili a quelle apportate dai farmaci.

Eric Kandel, uno dei più grandi neuroscienziati viventi, vincitore del premio Nobel per la medicina nel 2000, già nel saggio del 1979, intitolato Psicoterapia e sinapsi, affermava pioneristicamente che il meccanismo di funzionamento della psicoterapia non fosse dissimile da quello dei farmaci, che cioè la psicoterapia fosse una terapia “biologica” che agisce in termini di modificazione di circuiti neurali e di sinapsi. D’altro canto, a supporto degli effetti neurobiologici della psicoterapia possono essere utilizzati metodi di neuroimaging funzionale che ne permettono la misurazione.

Gli attualissimi studi sul trauma condotti da Van der Kolk, Pat Ogden, dimostrano come la terapia sensomotoria sia altamente efficace nel trattamento dei traumi cumulativi durante l’infanzia e che hanno manifestazioni patologiche nell’età adulta. Come afferma Liotti “Non avremo mai cure farmacologiche di valore più che palliativo per tali disturbi e dobbiamo ricorrere alla psicoterapia se vogliamo sperare in un vero e durevole recupero delle funzioni di coscienza e di regolazione delle emozioni compromesse da memorie traumatiche estese e cronicizzate”.

La complicazione di cui parla il dott. Giovanni Sabato relativa al ruolo del terapeuta e alla relazione col paziente, è ineludibile, poiché il ruolo del terapeuta e la relazione che si instaura con il paziente, sono nella letteratura di ricerca sugli esiti delle psicoterapie, i cosiddetti fattori aspecifici che, soprattutto nelle terapie umanistiche sono lo strumento di cura.

Nell’articolo si cita un lavoro di Lilienfeld in cui si parla delle terapie più a rischio e vengono citate nell’ordine: la comunicazione facilitata, l’ipnosi, il rebirthing, il counselling (o counseling) e le terapie espressive mettendo insieme tecniche non psicoterapeutiche come la comunicazione facilitata e il rebirthing, attività psicologiche come il counseling spesso esercitate impropriamente da altre figure e in quel caso altamente dannose, tecniche terapeutiche ad uso esclusivo di iscritti all’ordine dei medici e degli psicologi come l’ipnosi, e le psicoterapie espressive che sono approcci psicoterapeutici come la bioenergetica.

Concordo, a tal proposito, con il dott. Sabatino sull’importanza del fornire informazioni dettagliate al paziente che ha il diritto di orientarsi verso il percorso che sente più congeniale. A tal proposito ogni psicoterapeuta ha il diritto/dovere di far firmare ai propri pazienti il contratto terapeutico e il consenso al trattamento dei dati personali in cui la persona riceve le informazioni di base (durata della seduta, onorario, approccio utilizzato ecc), a maggior ragione perché quelli che dichiarano di non sapere che tipo di terapia si stia seguendo, sono i soggetti più a rischio di manifestare effetti negativi duraturi. Ci sarebbe da chiarire meglio a quali manifestazioni ci si riferisce con “effetti negativi duraturi”, “danni” perché nell’articolo ad un certo punto si parla di “aggravamento dei sintomi”. Per alcune patologie psichiche, l’acuirsi di alcune manifestazioni sintomatologiche può rientrare nel processo terapeutico e, a volte, è addirittura una tappa necessaria e imprescindibile che, sostenuta dal terapeuta, porta la persona ad una maggiore presa di consapevolezza delle sue difficoltà e allo sviluppo di nuovi adattamenti funzionali e sani. Altro discorso ha a che vedere invece con un aggravarsi dei sintomi dovuto ad una diagnosi errata. In questo caso può trattarsi di un errore correggibile se il paziente rimane in terapia, in caso di abbandono purtroppo saremo in presenza di uno dei casi che si può catalogare come danno iatrogeno alla stregua di un medico che cura un tumore al cervello con farmaci per la cefalea perché ha fatto una diagnosi errata, per negligenza o perché il paziente non si rivolge al medico con costanza o tempestività.

Sarebbe sicuramente utile approfondire l’argomento senza tabù, perché per etica professionale nessun professionista può sottrarsi alla ricerca che ha il compito fondamentale di aprire nuovi scenari e migliorare le strade già percorse, ancor più quando si lavora con la salute delle persone e della comunità. Soprattutto, sarebbe importante condurre delle ricerche in Italia e confrontarle con le ricerche americane e inglesi.

Tanti punti potrebbero essere affrontati in nuove e intraprendenti ricerche tra cui

  • strutturare ricerche valide senza spersonalizzare il processo terapeutico
  • evidenziare eventuali differenze tra interventi condotti da strutture pubbliche piuttosto che private

 

cervello3A livello più istituzionale bisogna puntare altresì su una maggiore chiarezza di ruoli e funzioni, affinché ognuno possa agire con la sua specifica competenza in un’ottica multidisciplinare, punendo gli abusi ove si manifestino.

Nell’articolo, ad esempio, riprendendo i dati della ricerca di Lilienfeld che avrebbe tentato un primo censimento delle terapie più a rischio di fare danni, si fa confusione tra approcci psicoterapeutici, tecniche utilizzate da psicoterapeuti o da altri professionisti, interventi di psicoeducazione come il Drug Abuse Resistance Education. In ogni intervento sono tante le variabili da tenere in considerazione, in primis chi lo realizza e con quali competenze.

 

In chiusura mi chiedo, perché una persona affetta da una patologia cardiaca rischia di sottoporsi ad un intervento dove esiste una percentuale pari, ad esempio, al 30% che la procedura non produca il beneficio sperato o produca danni, anche la morte, nella speranza di prolungare la sua vita e migliorare la qualità della vita e una persona affetta da un disturbo psichico o un disagio relazionale, non possa rischiare di intraprendere un percorso psicoterapeutico che le potrebbe permettere di migliorare la propria qualità di vita, la riduzione dell’uso di farmaci e dell’insorgenza di problematiche stress correlate, rischiando un 5%?

Se invertiamo la prospettiva la situazione è molto meno terroristica di quanto urlato in prima pagina.

Un modo semplice per ridurre al di sotto del 5% i danni della psicoterapia consisterebbe nel puntare sull’onestà terapeutica, di cui ci parla Giovanni Salonia, saggio e umile Psicoterapeuta della Gestalt che non ha paura di riconoscere i suoi errori e di farne tesoro. “Essere onesto per uno psicoterapeuta non è solo un’istanza etica ma, per molti aspetti, un requisito professionale. Prendersi cura delle persone richiede, proprio nella sua stessa definizione, integrità e onestà. In quanto rapporto fondato sulla fiducia (affidare il proprio malessere dell’anima ad un altro), l’onestà è una componente fondamentale della professionalità e, quindi, determina l’efficacia della cura” (G. Salonia, 2016, L’onestà come competenza terapeutica, in GTK Rivista di psicoterapia», 6, 115-119).

L’onestà terapeutica non si traduce in una semplice osservazione del codice deontologico, seppur fondamentale per l’esercizio della professione, ma in un’intima accettazione delle stesse che, prima di essere imposte, devono essere connesse ai desideri più profondi del terapeuta. Per questo motivo, un terapeuta onesto e responsabile non può trascurare a mio avviso, la propria crescita personale e la supervisione clinica che gli permettono di uscire dall’autoreferenzialità del proprio studio e di aprirsi al confronto.

La psicoterapia è rischiosa? Si, certo che lo è! È un rischio mettersi a nudo, fare i conti con le proprie fragilità, con i limiti dell’umana esistenza che ci inducono a profonde frustrazioni. Curare le ferite (anche quelle della psiche) fa male, ma non vale la pena correre questo imprescindibile rischio per il proprio benessere e per migliorare le proprie relazioni?

Ognuno è libero di scegliere per sé.

 

*Psicologa-Psicoterapeuta. Vice Presidente nazionale e Presidente Lazio di PLP